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Non vedi, ti ha preso
il gioco vorticoso delle mani,
la natura spettrale della danza
che congiunge gli attacchi
degli spilli all’addome;
il ferro freddo e debole, scherzoso
che precede ma non cede al momento,
non è mai il momento
dei gesti contriti e delle ultime cene
al lume di un sapere che fioco aspetta il soffio,
il soffio che non viene e altre sere
vuoi trascorrere nella tua barchetta di esperienze
a rimirare i vetri vuoti e i volti
degli amici così belli, così pieni di parole vorticose,
come quei giochetti sadici con cui
cerchi sempre di ammalarmi.
Spogliami piuttosto e fa’ il tuo ingresso
alle prove generali della morte
perché non sia morte in vita ma una vita
sospesa, nell’istante del respiro
più lungo, del salto che non chiede
congedo e non ha voce.
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Il suono è qui un ritorno
di vita, di attese di un’altra vita,
di cose salde e semplici – il bicchiere
di vino, il piatto pieno e fumante,
tu che piano ti siedi e mi chiedi
quali salvezze oggi ho trascorso
per approdare in questo porto calmo
senza nulla cercare, a riposo
dall’ansia che graffia e,
forse, tutto ha già fatto il suo corso
e l’occhio da specchio è mutato
in muro, in un muro immaturo perché
non è giusto essere saggi a vent’anni
senza ancora parole per spiegare, testamenti
da cedere in cambio del perdono, senza ancora
avere chiesto perdono, avere fatto qualcosa
da cui essere assolti.