*

Non vedi, ti ha preso

il gioco vorticoso delle mani,

la natura spettrale della danza

che congiunge gli attacchi

degli spilli all’addome;

il ferro freddo e debole, scherzoso

che precede ma non cede al momento,

non è mai il momento

dei gesti contriti e delle ultime cene

al lume di un sapere che fioco aspetta il soffio,

il soffio che non viene e altre sere

vuoi trascorrere nella tua barchetta di esperienze

a rimirare i vetri vuoti e i volti

degli amici così belli, così pieni di parole vorticose,

come quei giochetti sadici con cui

cerchi sempre di ammalarmi.

Spogliami piuttosto e fa’ il tuo ingresso

alle prove generali della morte

perché non sia morte in vita ma una vita

sospesa, nell’istante del respiro

più lungo, del salto che non chiede

congedo e non ha voce.

**

Il suono è qui un ritorno

di vita, di attese di un’altra vita,

di cose salde e semplici – il bicchiere

di vino, il piatto pieno e fumante,

tu che piano ti siedi e mi chiedi

quali salvezze oggi ho trascorso

per approdare in questo porto calmo

senza nulla cercare, a riposo

dall’ansia che graffia e,

forse, tutto ha già fatto il suo corso

e l’occhio da specchio è mutato

in muro, in un muro immaturo perché

non è giusto essere saggi a vent’anni

senza ancora parole per spiegare, testamenti

da cedere in cambio del perdono, senza ancora

avere chiesto perdono, avere fatto qualcosa

da cui essere assolti.

 

 

Le mie palpebre: il muro che riflette

il gioco vorticoso delle mani,

spettri loro stesse degli attacchi,

spilli piccoli, testardi

che ti pungono all’addome.

Ferro freddo e debole, scherzoso

che precede ma non cede al momento,

non è mai il momento

dei gesti contriti e delle ultime cene

al lume di un sapere che fioco aspetta il soffio,

il soffio che non viene e altre sere

vuoi trascorrere nella tua barchetta di esperienze

a rimirare i vetri vuoti e i volti

degli amici così belli, così pieni di parole vorticose,

come quei giochetti sadici con cui

cerchi sempre di ammalarmi.

Spogliami piuttosto e fa’ il tuo ingresso

alle prove generali della morte

perché non sia morte in vita ma una vita

sospesa, nell’istante del respiro

più lungo, del salto che non chiede

congedo e non ha voce.

 

Le braccia forti di tuo padre

fan presa alle tue gambe e sei tranquilla;

eppure senti che il tuo corpo è una caduta.

Sulle sue spalle ti avvicini al fiume

eccitata, con gli occhi scintillanti.

«Guarda l’argine.

Preserva il pudore dell’acqua,

le dà forma e la tiene in vita».

Non capisci che cos’è il pudore

e già diventi rossa.

«Sei tu il mio argine?»

Tuo padre non risponde,

ti posa e si getta nel fiume.

E tu ti senti libera,

ora che stringi nella mano la tua colpa.

 

Hai già smesso di correre? Ho visto il tuo scatto

al battito d’ali dello stormo, rete tesa al cielo,

abbraccio all’aria senza presa. Tesi i tuoi muscoli:

volevi imitare un’altra vita, di gesti e non di parole;

il battito del cuore come unica sfida.

Ti ho visto correre verso il vuoto del mondo,

quel silenzio che è pur sempre una scusa,

una fuga a spirale

che rilascia il pensiero insieme al sudore.

Nella vita  si sbaglia il momento,

la caviglia si sloga e si cade nel vuoto,

nel vuoto del mondo.

 

Istanti di dolore che si accendono e

si spengono, come luci di navi in cerca di soccorso,

come cose da niente eppure, al momento,

come massi legati alle braccia che fanno

sprofondare nel letto, nel mare

e il lenzuolo la sabbia sul fondo.

Adesso ho un’età in cui il corpo reclama di essere visto

tra le cose del mondo, come cosa normale,

cosa da niente, appunto, come nave che

voglia attraccare in un porto sicuro

dove gli uomini stanchi possano correre

con il passo pieno di chi torna da un viaggio.

Solo per poco però, solo per dire che hanno visto la terra;

poi il corpo, la nave si rimettono al largo,

si rimettono al loro spavento, senza una rotta, persi

in partenza, a cercare nel mare, nel letto

il riflesso sfatto del mondo.

 

 

Senza più la forza
di percorrere le espressioni di risposta
al dirupo del mio corpo: finestre che si chiudono e non
vetri rotti, l’odore del sole, fare parte del mondo.
La mia Dublino è questa casa
e tu turista non fotografi che assenze.
Ma lascia che io stringa la tua mano
che ti dica «Arrivederci,
torna pure quando vuoi».

 

Le nostre radici scoperte

temono meno di noi la vergogna,

la tortura nascosta della sera.

Oblio è parola troppo grande

per una così cauta propensione alla resa.

Forse soltanto il martirio

di qualcosa che abbiamo già perso.

Le tue labbra cedute in cambio di un silenzio,

la mia giovinezza in cambio di un’ora felice.

Restiamo intenti al nostro gioco muto

senza un battito di mani, un gesto

che superi gli arrivi.

 

 

I fotti-fotti dell’anima
spareggiano sempre col mondo.

 

È un moto di silenzio il calore del suo corpo:

gonfia e spiega il desiderio verso il mondo.

Vasja percorre le distanze del terrore

col sorriso sfinito. Le rughe ancora impresse sulla fronte

sono spettri di una smorfia di dolore perpetuata come un rito

e il torpore dei suoi gesti mostra il gelo che ha alle spalle.

Un lascito che nemmeno la stanchezza può slegare dalle braccia.

Una libertà artefatta in cui si lascia trascinare

adesso, sfiorando con il peso del suo corpo abbandonato

la strada che si affaccia lungo il porto di Predotkin: il paesaggio

immobile, il paesaggio di un inabissamento.

Grida sono forse o forse canti di uccelli, trascorrono veloci intimiditi

da se stessi.

La vita è negli occhi di chi guarda e Vasja guarda fisso. Basta un salto

poi, fino al ghiaccio in cui il mare si è indurito.

Danza lieve delle ruote, le ginocchia che si sbucciano nel freddo. Una distesa

di freddo che congiunge l’orizzonte. Vasja adesso è solo

ma dal nulla si avvicina un militare d’altri tempi, in ricordo forse

di un secolo scomparso per fiacchezza di memoria:

la livrea azzurra e bianca e i favoriti (lunghi lunghi

della nobiltà elegante). A Predotkin c’è soltanto

la sua voce: «Questo ghiaccio! Questo ghiaccio è una lastra

che riflette gli abbandoni. Se continui a scivolare

trovi il regno degli orsi! Se continui..»

La vita è negli occhi di chi guarda e Vasja guarda fisso. Guarda fisso

oltre il freddo che congiunge l’orizzonte.

 

Mi ricordo di quando ero piccolo e giocavo col pongo. Ad avere le mani in pasta mi sentivo felice e quando aprivo i barattoletti colorati subito il profumo che ne usciva accendeva le mie guance di piacere. Sì, credo di avere scoperto così il vero stato di eccitazione: il pongo è la causa prima dei miei turbamenti emotivi, la scaturigine del mio destino atto e a venire, ne sono certo.
Non facevo parte di quella nota cricca di bambini noiosi che passano le giornate a riprodurre strani animali come elefanti o coccodrilli che sembrano cappelli talmente brutti che a nessuno passerebbe per la testa di indossare. Io, come mio padre soleva dirmi soddisfatto, ero molto più intelligente degli altri bambini e così, mentre loro si divertivano a copiare figure imprecise di imprecisati esseri rappresentabili, scoprivo precocemente il concetto di astrattismo unendo in un meticoloso e ragionato lavoro un’infinità di palline colorate fino a costituire un’unica e stupefacente sfera arlecchinesca. Non riesco tuttora a spiegarmi come mai, mentre mio padre annuiva entusiasta e interrompeva ritmicamente il suo ondeggìo del capo con esclamazioni euforiche, mia madre, con mezzo volto coperto dalla porta della cucina, mi osservava preoccupata ed esitante. Forse pensava che i bambini troppo intelligenti come me poi finiscono per impazzire o per stare male e forse lo pensava perché era una fanatica lettrice di Pirandello e la madre di Pirandello era sempre preoccupata ed esitante per lui perché sapeva che tutta quella intelligenza lo avrebbe fatto soffrire. O forse, altra plausibile soluzione, era preoccupata perché, ogni volta che mi cimentavo in quelle opere d’avanguardia, tutto il pongo si mescolava in un unico magma ed era impossibile ristabilire l’ordine dei colori tanto che poi, a seguito dei miei lamenti d’artista, a loro toccava comprarmi continuamente barattoli nuovi con conseguenze economiche non indifferenti.
È un vero peccato che nell’incoscienza della mia giovane età io abbia distrutto tutti i miei capolavori nell’istante immediatamente successivo alla loro nascita. Avrei potuto mostrarli in seguito a qualche critico importante o a qualche imprenditore facoltoso col puntiglio del collezionismo. Avrei fatto sicuramente una brillante carriera, non v’è dubbio che il mio talento sarebbe stato riconosciuto. O almeno questo è quello che dice mio padre ogni volta che vado a trovarlo al ricovero per anziani dove l’ho condotto due anni fa con tutte le amorevoli cure del mio essere figlio.
La falsa insignificanza di questa divagazione puerile è data dall’assunto iniziale secondo cui il pongo vale per me come metafora esistenziale, come origine primigenia, escandescenza mitica della mia natura incontrovertibile. La spiegazione è molto semplice: fin dall’infanzia ho sempre provato un inesplicabile odio per il colore giallo; sebbene esso fosse indispensabile per le mie creazioni, era con non poco tremare di nervi che infilavo le dita tra le carni di quel disgustoso specchio d’olezzo. E ancora più terribile era ritrovarmi poi i suoi grumi appiccicosi sulla pelle, così crudelmente aggrappati ai miei palmi da rendere infiniti i supplizi dei miei sfregamenti convulsi e i continui lavaggi di mani fino a quando, dopo tanto dolore, finalmente il sapone vinceva sul male. Ma la soddisfazione era breve: subito i miei occhi assuefatti all’angoscia producevano piccole cellule giallognole fisse al centro dello spazio visivo e io ricordo che correvo precipitosamente al bagno per controllare, schiacciato allo specchio, se per caso dei pezzetti di pongo non fossero schizzati sulla superficie esterna dei miei fori scopici. Nulla vi era e così, per almeno mezz’ora, aspettavo seduto sul cesso che l’incubo allucinatorio completasse la sua tortura e mi lasciasse prendere sonno. Quando un giorno ho trovato il coraggio di confessare a mia madre la maledizione del colore giallo, lei mi ha portato spaventata dall’oculista il quale mi ha spiegato con calma che trattasi di un fenomeno comune a chi per troppo tempo sta sotto il sole o si affatica in un lavoro di concentrazione intellettuale. Mia madre si è sentita subito rasserenata, mentre io avevo scorto nel sorriso accomodante del dottore la spia ipocrita di un complotto inequivocabilmente rivolto contro il sottoscritto. Da quel giorno nessuno ha più potuto dissuadermi dall’idea dell’esistenza di una sordida alleanza tra la lobby dei medici e il colore giallo: a riprova giallo era il portapenne sulla scrivania dell’oculista, giallo pallido le pareti del suo studio e gialli i denti di quella vecchia seduta nell’atrio che doveva sicuramente essere un agente sotto copertura appostato a controllare ogni mia mossa. Senza che mi sia mai stata spiegata la ragione io ho la certezza di essere vittima di una condanna del destino, di una persecuzione che ha costretto la mia vita in una sala di torture. Poiché anche adesso, dopo trent’anni di astinenza da pongo, sento i microbi del giallo nuotare con disinvoltura tra i flutti del mio sangue corrotto e contaminare il mio libero arbitrio con i loro veti e voleri. Ed è infatti fin dalla mia più giovane età che ogni mia scelta è condizionata dal volere dei germi che porto come una croce crudele, divenendo io ombra di me stesso, spettro imprigionato nel fondo degli occhi a osservare il mio corpo impazzire.
Il giallo agisce secondo un metodo terribile: volendo attirare a sé tutto ciò che gli è consimile, dunque tutto ciò che assume apertamente il suo colore, esso agisce sulle zone erogene del corpo provocando un desiderio di intensità perversa, tale per cui detto corpo sente la necessità assoluta di penetrare il giallo, sfondarlo ed eiaculare nel piacere dell’orgasmo. Il cervello non ha più alcun potere, non sono suoi gli impulsi inviati lungo i nervi. È il giallo a manipolare gli elementi interni, a infettare gli organismi con la sua brama di sesso e violenza. Io gli cedo il mio peso, la mia possibilità di agire e di provocare conseguenze a cui non posso affiancare delle cause verosimili. Come se fossi un’arma puntata contro vittime di volta in volta designate. Ma le armi non hanno occhi, mentre io sono costretto ogni volta ad essere complice e vittima del mio aguzzino. Accusato mille volte di atti osceni: per essermi strusciato contro i limoni mentre aspettavo il mio turno dal fruttivendolo, per aver cercato di stringere tra le gambe la testa bionda di una o di un passante, per aver leccato la pipì ancora calda di un bambino nel parco. Tutte azioni inconsulte e degradanti a cui non posso sfuggire. Tutte azioni che mi hanno costretto a vivere in solitudine, senza mai poter sperare in un’amicizia sincera o in un amore, se non quello del mio corpo verso un colore che detesto. L’anno scorso un collega, per prendermi in giro, mi ha regalato  una bambola gonfiabile a grandezza naturale raffigurante Marge Simpson. Come ridevano quel giorno in ufficio vedendo ogni mia dignità scomparire tra le cavità di quel simulacro di dolore. Si sbellicavano osservando il mio terrore, le lacrime che correvano sul mio viso. Da quel giorno ho capito fino in fondo la paura di mia madre, i suoi occhi strappati al tempo per avvertirmi di un destino pieno di angoscia. Ho perlomeno la fortuna di risultare ridicolo agli occhi del mio direttore, che non mi licenzia solo perché i miei atteggiamenti lo fanno divertire. E, anzi, cerca in tutti i modi di far scattare gli impulsi libidici che mi attanagliano, per ridere di me insieme alla sua segretaria.
So quello che pensate. Molti di voi, se mi conoscessero, si comporterebbero come gli altri: avere uno zimbello da additare salva spesso il cuore dai turbamenti. Quelli invece più sensibili penseranno che è assurdo continuare con una vita simile. E so che vorrebbero tanto chiedermi come mai non scelgo la strada del volo verso una culla d’asfalto o di roccia appuntita. Come mai non rinuncio a questa vita che sembra avere da un pezzo rinunciato a me? Perché c’è un luogo dove sono felice, dove ogni tormento è interdetto. Ho trovato questo rifugio solo da qualche anno, ma già la mia vita è cambiata. Ogni sera mi attende, mi accoglie con la sua umiltà malinconica e mi salva dal mondo. Ho trovato un lavoro come proiezionista nel piccolo cinema del mio quartiere, in cui fanno esclusivamente film in bianco e nero. Non so quante volte ho rivisto i film dei Fratelli Marx quest’anno; devo a loro dei momenti di gioia sincera. Come se la porticina rossa della sala di proiezione fosse l’entrata per un incantesimo stupendo, un soffio di libertà che guarisce i polmoni. É un piccolo piccolo cinema frequentato da poche persone, pressoché sempre le stesse e tra queste una ragazza che mi piace tantissimo. Ogni giovedì arriva davanti al cinema un po’ in anticipo per fumare la sua sigaretta. Poi entra e si siede sempre al solito posto, terza fila di destra vicino allo schermo. Io la osservo quando entra e poi dall’alto del proiettore. Quando c’è l’intervallo la spio mentre si alza a stirarsi le gambe e a parlare con i due signori anziani seduti qualche fila dietro di lei. Penso che in fondo ogni giovedì andiamo al cinema insieme ed è bello, ci si sente meno soli. Credo che lei capirebbe. Lei che conosce così bene i Fratelli Marx perché li ha visti tante volte non può pensar male di me. E magari se ci conoscessimo la farei ridere, ma in un modo che finalmente piacerebbe anche a me. Qui nell’ombra di questa stanzetta mi sembra di essere un mago. E un altro mago nascosto qua fuori, magari dietro ai cassonetti dell’immondizia, muove la sua bacchetta ogni volta che arrivo, trasformando questo edificio solitario nella camera delle meraviglie che mi appare ogni sera, quando alzo la saracinesca e avvio la macchina.