C’era una volta, prima che il ferro delle rotaie venisse a formare le venature del mondo, un piccolo paese posto in cima a una collina, che faceva la sua vita tranquilla e un po’ monotona, scandita dal lavoro e dal riposo delle feste. Affacciata su una via stretta, riconoscibile per il balcone ricolmo di fiori che sporgevano dalla ringhiera, come volessero tuffarsi nella strada, era la casa di Cenerino, un bel bambino esile, dai lineamenti fini, che aveva preso quel nome dai suoi occhi, color della cenere. Cenerino non aveva fratelli o sorelle, e i suoi genitori dedicavano a lui tutte le loro attenzioni: lo coccolavano sempre, lo riempivano di regali e gli facevano frequentare la scuola migliore di tutto il paese, sperando di vederlo diventare, da grande, maestro o, magari, avvocato. Così il bambino cresceva sensibile e intelligente, con tanta voglia di imparare.
Ma un giorno il nido dell’infanzia cadde dal ramo rovinando al suolo: Cenerino, ormai adolescente, si era appena svegliato ed era andato in cucina per fare colazione, quando vide sua madre che piangeva; le mani strette alla tazza e il viso chino a mescolare le lacrime al vapore esalato dal tè. «Mamma cos’hai?», le chiese Cenerino. «E papà dov’è?», aggiunse poi, vedendo che la tavola era apparecchiata solamente per loro due. La madre si riscosse e venne ad abbracciare il suo ragazzo; lo strinse così forte che lui quasi si sentì soffocare. «Tuo padre se ne è andato questa notte», gli disse. «Ha fatto le valige e è andato via. Ha preso la strada per la città, ci ha lasciato». Cenerino non capiva che volessero dire quelle parole e chiese: «Quando torna?». Sua madre non rispose. Facendosi forza si asciugò le guance, si soffiò il naso e finì il suo tè; poi mise una mano sul capo del figlio e, carezzandolo, lo esortò a sbrigarsi, se no avrebbe fatto tardi per la scuola.
I giorni seguenti, nonostante le insistenze di Cenerino, la madre continuò a non dare spiegazioni sulla scomparsa del marito; occupò invece tutte quante le energie per trovarsi un lavoro visto che, senza di quello, lei e suo figlio non avrebbero avuto di che mangiare. Così cercò, cercò e infine lo trovò presso il panettiere della piazza, uomo un po’ burbero e grassoccio, che abbisognava di una commessa che gli tenesse il negozio, mentre lui e i suoi tre figli riposavano dopo il lavoro al forno della notte. Ciò che non era detto, ma che tutti sapevano, è che il panettiere Berto, vedovo ormai da due anni, cercava anche una compagna che lo aiutasse con la casa e curasse i suoi figli, ancora giovani e irrequieti.
Dopo qualche mese di allusioni e goffe tenerezze, la madre di Cenerino, divenuta una perpetua sonnambula a causa delle pastigliette colorate che prendeva di continuo per dimenticare il suo dolore, cedette alle avances di Berto e andò a vivere a casa sua insieme al figlio, sconvolto da quegli eventi che, così rapidamente, gli avevano arrovesciato l’esistenza.
Il primo anno Cenerino poté continuare ad andare a scuola; poi Berto gli fece un discorsetto: «Anche se non sei mio figlio ti ho tenuto con me e ora è giusto che mi ripaghi. Lavorerai con gli altri al forno e, pronto il pane, lo porterai a tutte le case che ti dirò. Per studiare ormai sei grande.. e infatti guarda come sei debole, sembri una femmina! Non è girando le pagine di un libro che si formano i muscoli di un uomo».
Cenerino, inizialmente, obbedì con piacere agli ordini del patrigno perché, da quando si era trasferito da lui, tutti i compagni lo prendevano in giro, canzonandolo e dando epiteti crudeli a sua madre. Ma presto si accorse che il lavoro al forno non era equamente distribuito e, mentre lui si affaticava a preparare le pagnotte e a infornarle sotto lo sguardo vigile e severo di Berto, i suoi fratellastri sonnecchiavano o giocavano a lanciarsi la farina, sporcando tutto il pavimento; ed era sempre lui a dover pulire. Finito il lavoro, mezzo sfinito dalla stanchezza, distribuiva i pani nei sacchetti e, alle prime luci dell’alba, faceva il giro del paese per le consegne. Quando gli era rimasta un pochino di forza, ripassava alla sua vecchia casa e guardava dalla strada il terrazzo ormai vuoto, rimpiangendo i bei fiori a cui, un tempo, sua madre dedicava tante cure. Altre volte prendeva la strada grande, quella che aveva percorso suo padre la notte in cui se n’era andato; ma dopo poco tornava indietro e si trascinava a letto, dove subito si addormentava.
Un mattino entrò nel panificio un giovane servitore vestito di tutto punto e chiese alla mamma di Cenerino due pani per il suo padrone che, stanco e affamato per il viaggio, aveva voluto fermarsi il prima possibile a prendere qualcosa da mettere sotto i denti. La donna, vedendo quel damerino in ghingheri, si fece tutta rossa e, con la sua ormai consueta lentezza, gli diede le due pagnotte, aspettando poi di farlo uscire per sbirciare dalla vetrina e vedere una carrozza sfarzosa che, trainata da sei cavalli bianchi, si allontanava rapidamente.
Quando la sera raccontò a Berto l’accaduto, questi si mise a pavoneggiarsi a più non posso, meditando il progetto di far preparare al falegname una nuova insegna per il negozio, con la scritta: “DA BERTO: IL PANE DEI SIGNORI”. E in effetti quel pane era davvero buono, perché Cenerino metteva nel lavoro un grande impegno, sperando che così la gente del paese gli potesse voler bene. Il suo pane era così buono che un mattino si ripresentò al negozio il giovane servitore, annunciando che il suo padrone, in vista di una festa che si sarebbe tenuta di lì a tre giorni nella sua villa di città, voleva che fossero loro a rifornirgli il pane necessario.
La mamma di Cenerino, vedendo il mazzo di banconote che il ragazzo le porgeva, ebbe un sussulto di vitalità e, presi i soldi e il foglio in cui erano annotate le ordinazioni e il recapito per la consegna, ringraziò con enfasi il giovane, assicurandogli che tutto sarebbe stato pronto entro il giorno stabilito. Corse poi a casa e svegliò Berto, mostrandogli il mazzetto e leggendogli gli ordini; al che seguì un urlo e del trambusto, perché il pane che veniva richiesto era quello che loro erano soliti preparare nell’arco di un mese. Berto si tuffò giù dal letto e andò a svegliare i suoi tre figli e Cenerino, sbraitando loro di mettersi subito all’opera. Ma il pane da preparare sembrava infinito e, più passavano le ore, più Berto si infuriava, sfogando la sua rabbia su chiunque gli passasse sotto tiro.
La notte precedente al giorno della festa, mentre il patrigno e i fratellastri, battuti dal sonno, ronfavano stesi sul pavimento, Cenerino se la filò alla sua vecchia casa, per lenire un poco la tristezza con il ricordo dei bei tempi in cui c’era ancora suo padre e lui poteva passare i pomeriggi a leggere i libri per la scuola. Giunto alla via e fermatosi sotto al balcone, venne avvicinato da un uomo con il volto coperto da un largo cappuccio. Sulle prime Cenerino si spaventò, ma fu subito tranquillizzato dalla voce calda e affettuosa di quell’uomo, che gli si rivolse con queste parole: «Che ci fai tutto solo per le strade a quest’ora della notte? I tuoi saranno preoccupati, non credi? Dovresti tornare da loro». Il ragazzo, sia perché quella voce era così bella, sia perché era da molto tempo che provava il desiderio di confidarsi con qualcuno, si mise a raccontare tutte quante le sue sventure. Lo sconosciuto, non appena Cenerino smise di parlare, gli disse: «La tua storia è molto triste; ma io posso aiutarti, aspetta»; ciò detto, prese qualcosa dalle tasche e la porse al ragazzo. «Ora torna a casa e, quando sarai di fronte al forno, stando attento che nessuno ti veda, bevi in un gran sorso tutta l’acqua che è contenuta in questa boccetta e pronuncia le parole:
“Acqua che modelli il mondo,
modella il mio incubo affinché divenga un sogno”.
Poi mettiti tranquillo a riposare e vedrai che, quando riaprirai gli occhi, tutto il lavoro sarà fatto».
Cenerino svelto tornò a casa e, giunto davanti al forno, mentre ancora gli altri dormivano, fece quanto gli aveva detto il signore incappucciato. D’improvviso gli venne un gran sonno e, sedutosi su una seggiola che gli stava accanto, si addormentò. Qualche ora più tardi fu svegliato dalle grida festanti di Berto e dei suoi tre figli che, in preda all’allegrezza, si erano messi a danzare intorno a un centinaio di sacchi ricolmi di pane dorato. Presto tutto fu caricato su tre carri, alla cui guida furono messi i tre fratelli e Berto, insieme a loro, andò in città a effettuare la consegna. Dopo qualche ora il gruppo fu di ritorno e il panettiere si mise a raccontare ciò che aveva visto: il palazzo di quel gran signore era immenso, con divani in ogni sala, specchi alti alle pareti e mille servitori che correvano di qua e di là per i preparativi della festa. «E noi siamo invitati!» disse infine, raggiante, alla sua donna. «Le porte del palazzo saranno aperte per tutti questa sera. Quel riccone festeggia il diciottesimo compleanno della sua unica figlia e vuole condividere la sua felicità con chiunque abbia il desiderio di fare un po’ di baldoria». Poi si rivolse a Cenerino con tono più pacato: «Ragazzo mio, purtroppo non potremo andare tutti. Sono già tre giorni che snobbiamo la gente del paese e molti sono venuti in negozio a lamentarsi. Chissà, se questa notte lavorerai di buona lena magari domani ti darò il giorno libero». Detto questo, andò a indossare il suo abito più bello e lo stesso fecero gli altri; compresa la mamma di Cenerino che, così entusiasta all’idea di partecipare a una festa di ricchi, non aveva fatto alcun caso al dispiacere che d’un tratto aveva velato gli occhi del figlio.
Mentre gli altri si preparavano, il povero ragazzo si mise al lavoro con l’attenzione di sempre ma, non appena sentì chiudersi la porta di ingresso e il rumore del carro in partenza, lasciò tutto per correre alla sua vecchia casa dove di nuovo incontrò l’uomo incappucciato, che gli chiese che cosa avesse fatto gonfiare i suoi occhi di pianto. Cenerino gli confidò tutto e il signore misterioso gli diede una nuova boccetta, del tutto simile alla prima. «Ora torna a casa e va’ nella tua stanza. Quando avrai chiuso la porta, bevi in un gran sorso tutta l’acqua e pronuncia le parole che già conosci. Vedrai che così tutto il lavoro sarà fatto e tu potrai andare alla festa. Ma ricorda che a mezzanotte dovrai lasciare il palazzo».
Cenerino corse a casa e seguì tutte le indicazioni dell’uomo misterioso. Non appena pronunciò le parole magiche, gli venne un gran sonno e si stese sul letto, addormentandosi per qualche minuto. Al suo risveglio, al posto della vecchia tuta piena di toppe che portava di solito, si ritrovò vestito di un abito elegante, come quelli dei principi delle fiabe che gli leggeva sua madre quand’era piccolo. Si precipitò al forno e vide che il pane era già distribuito nei sacchetti. Uscì allora di casa, pensando che avrebbe dovuto farsi tutta la strada di corsa; ma subito si accorse che un bel cavallo già sellato lo attendeva fuori dalla porta. Galoppò fino in città e, giunto al palazzo, fece il suo ingresso nella salone suscitando l’interesse di tutti gli ospiti, perché un ragazzo così bello e con uno sguardo così profondo non si era mai visto. La festeggiata scelse lui come cavaliere e insieme ballarono per tutta la sera. A mezzanotte Cenerino, ricordandosi le parole del suo benefattore, si congedò dalla ragazza e tornò a casa.
Il giorno seguente Berto lo svegliò, spiegandogli che il signore del palazzo aveva deciso di far continuare la festa per un altra sera. «E noi dobbiamo assolutamente andarci, capisci? Se no facciamo la figura dei paesanotti. Qui però qualcuno ci deve restare, se no come si fa con il lavoro? Allora, se anche questa notte ti dai da fare al forno, domani sarai libero di fare ciò che vuoi».
Come la sera precedente, Cenerino aspettò che tutti se ne fossero andati; poi corse alla sua vecchia casa dove incontrò l’uomo incappucciato che gli porse una terza boccetta e gli disse di agire come per le altre due volte. Cenerino tornò a casa e, nuovamente, non appena pronunciata la formula magica, si addormentò per qualche istante. Al suo risveglio fu sorpreso nel vedersi indossare un abito ancora più bello di quello della sera precedente. Uscito di casa, trovò il cavallo che lo attendeva e si mise al galoppo verso il palazzo.
Giunto in città, strani pensieri cominciarono a balenargli; ricordi di quando era piccolo e circondato di affetto. Provò a immaginarsi il volto di suo padre ma non ci riuscì. Aveva fisso invece lo sguardo di sua madre, il mattino in cui gli disse che erano stati abbandonati. Uno sguardo carico di amore e disperazione, ma anche di forza e di coraggio. Quando entrò nel salone della festa, cercò subito quegli occhi tra gli invitati e vide sua madre seduta a una sedia, le mani congiunte, poggiate sulle gambe e il capo chino; un sorriso sognante le prendeva le piccole labbra. Cenerino andò da lei e le disse «Mamma, sono qui», ma lei non lo riconobbe. Probabilmente quei suoi occhi non erano più in grado di riconoscere nulla. Sembravano attraversare le cose, come se il mondo, per loro, fosse diventato trasparente. Suo figlio la prese per mano e la portò via, senza farsi vedere dai tre fratelli e da Berto. Sua madre lo seguì senza fare domande, si lasciò condurre come una bambina distratta, troppo presa da un suo gioco segreto per badare alla realtà. Insieme tornarono alla loro vecchia casa e vi si stabilirono. Poco tempo dopo Cenerino, diventato ormai adulto e robusto, trovò un lavoro. Il balcone si riempì nuovamente di fiori che la madre riprese a curare, non lasciando mai quel suo nuovo sorriso chiuso in se stesso. Ogni tanto madre e figlio, verso sera, facevano delle passeggiate; capitava che si fermassero all’imbocco della strada grande che filava fino alla città e lì guardavano l’orizzonte senza dirsi nulla. E così vissero tranquilli i giorni, senza pretese.